Micologi (e non) in erba
Diario di una mattina di primavera
Domenica 24 Aprile 2022,
è un giorno speciale per l’Associazione AMB di Lecce, già da circa dieci giorni c’è chi scalpita nell’attesa di oggi, la prima uscita fuori porta per i soci tanto bramata e voluta e finalmente giunta dopo un lungo periodo di digiuno.
Si preannuncia un caldo primaverile, meglio così perché consentirà a tutti di godersi l’escursione in leggerezza e senza rabbrividire ad ogni raffica di vento nordico.
Dopo circa le dieci, ecco che giungono all’Orto Botanico dell’Università del Salento i miei ospiti, tutti sorridenti, felici, propositivi e avidi di sapere; prima le formalità con i saluti di rito con il nostro Presidente Mello Vincenzo e poi, una volta sciolto il ghiaccio e nell’attesa degli ultimi ritardatari, si comincia a chiacchierare e discutere sui lampascioni: Leopoldia comosa oppure Muscari comosa? Classificazione Linneana oppure APG (Angiosperm Phylogeny Group)? La risposta brancola nel primo cerchio dell’inferno dantesco, il limbo.
Una volta tutti presenti, dall’alto di una gradinata di ben quattro scalini, si fanno le presentazioni e si annuncia l’inizio dell’escursione con un piccolo prologo che dà informazioni sull’Orto Botanico, su quale sia la sua storia, cosa offre e quindi cosa ci si sarebbe dovuto aspettare: un percorso tra i diversi habitat rappresentanti, con le loro biocenosi, il nostro Salento e che raccontano la sua storia ovvero di come il suo paesaggio odierno sia il risultato di un’intensa antropizzazione il cui inizio risale al
Neolitico e che ha portato alla scomparsa della estesa foresta primigenia salentina.
Boschi, garighe, macchie, prati aridi e incolto avrebbero accolto ciascun visitatore con le proprie caratteristiche fisiche e botaniche; attenzione però, si parla di Salento floristico (secondo la definizione di Baldacci) non di quello geografico e perbacco io mi sento salentina floristica non geografica, senza nulla togliere a chiunque appartenga a quel territorio che va oltre l’isoipsa 100 a nord di Lecce.
Ma quanto mi sarò dilungata? Evidentemente devo essere stata prolissa perché qualcuno mi ha suggerito di stringere, di essere più concisa, non bisogna andare oltre una certa ora e cosa rispondere al nostro caro e tanto amato Vice Presidente Pancrazio Campagna se non un: “Signor Si!”
Iniziamo quindi l’avventura e sull’uscio di casa c’è la Matricaria camomilla che, in risposta al nostro calpestio, dimostra la sua felicità sprigionando i suoi olii essenziali dal profumo caratteristico, ma ad aprirci la porta è uno splendido Pyrus spinosa vestito di nuovo e che con i suoi rami ci indica la strada. Dopo pochi metri giungiamo alle prime macchie tipicamente mediterranee con le loro biocenosi strutturate da Quercus coccifera subsp calliprinos e Arbutus unedu oppure Calicotome infesta e Mirtus communis. Si aprono nuovamente le danze dialettiche con descrizioni e spiegazioni perché è importante apprendere la verità (Socrate e la sua lungimiranza: “il sapere rende liberi”) ovvero che la macchia altro non è che una forma di degradazione della cenosi bosco che a sa volta lo è della foresta primigenia secondo uno specifico schema vegetazionale:
foresta↔ bosco↔ macchia↔ gariga↔ pseudosteppa↔ incolto
Le attività antropiche quali disboscamento, dissodamento del terreno e messa a coltura, incendi frequenti, pascolamento non controllato ( sottolineando “non controllato” perché la pastorizia ha la sua importanza se effettuata con criterio) sono la causa di perdita di biodiversità, ma i passaggi degradativi non sono irreversibili, eliminare i fattori alteranti consente alle biocenosi di ritornare nel tempo ad una forma più complessa (caratteristica ecologica definita resilienza) anche se non necessariamente alla foresta primigenia.
La passeggiata prosegue con piegamenti e rotazioni cervicali continui per l’osservazione di varie specie di orchidee selvatiche: Ophrys bertolonii, Ophrys lutea subsp lutea e sicula, Oprhys passionis subsp garganica, Ophrys incybacea, Serapias parviflora, ma quelle che fanno esplodere la meraviglia e curiosità sono la Ophrys tenthredinifera subsp neglecta e il suo ibrido endemico, vanto salentino per eccellenza, la Ophrys tardans.
Sull’uliveto non ci si sofferma molto, troppo doloroso vedere gli effetti devastanti della xylella e poi che dire che non sia stato già detto! La gariga a Rosmarinus officinalis ci ridà speranza deliziandoci con i suoi odori aromatici e beffeggiandosi della pseudosteppa di fronte ad essa, che si difende coraggiosamente con le sue Ophrys coriophora subsp fragans e soprattutto con lei, la Stipa austroitalica che, a braccetto con il barboncino mediterraneo (Cymbopogon hirtus) poco più in là, se la gode dall’alto del suo dichiarato habitat prioritario dalla direttiva europea 92/42/CEE. La storia del perché sia definita stipa delle fate ha affascinato tutti, peccato che non ci fosse ancora la piena fioritura, spero però che l’entusiasmo con cui ho definito l’effetto delle onde bianco˗argenteo dell’intera popolazione matura sotto l’azione del vento, sia stata sufficiente a dare sfogo all’immaginazione.
Un grande Cistus monspeliensis finalmente risveglia i cuori dei micologi soprattutto di Pancrazio che, come un mago, attira gli sguardi e l’attenzione associando l’arbusto al così tanto amato dai salentini “marieddhu” (Lactarius tesquorum); durante la traversata dei boschi l’associazione micologica è come una calamita, ma non è nel bosco di coccifera, ma nella lecceta che trova il suo apice, esplicitato da un generale: “ qui ci sono i porcini”!
La sughereta (di Quercus suber ovviamente) viene preannunciata da un bellissimo campo fiorito di Iris germanica che non ha nulla da invidiare a quello del dipinto” Iris” di Van Gogh; il loro blu argenteo dà un tocco artistico all’escursione che continua tra l’ammirazione delle Quercus ithaburensis subsp macrolepis e il fascino della loro storia incerta su come sono giunte fino a noi dall’Oriente dove si trova l’areale di distribuzione della vallonea.
Dopo le Quercus pubescens, il panorama si apre nuovamente con garighe e prati aridi che consentono di scorgere a distanza l’apiario dell’Orto che consta di ben 22 arnie, difatti ciò che nessuno ha notato è stato il ronzio delle Apis mellifera che ci ha accompagnato per tutta la passeggiata perché distratti dal mio bla bla, dall’Ornithogalum umbellatum, dalla Bellardia trixago scambiata per orchidea, dal Tordylium apulum, dal Pallenis spinosa, dal Tragopogon porrifolius, dallo Smyrnium olusatrum e……..tanto tanto altro.
Giungiamo all’ultimo habitat da osservare: la pineta, esempio di impianto antropico lungo la fascia costiera agli inizi del 900 di Pinus halepensis; eccezioni sono la pineta di San Cataldo, degli Alimini e quella di Rottacapuozza ad Ugento che sembra risalire addirittura al 700 e quindi naturalizzata.
L’entusiasmo, nonostante il caldo, ha fatto sì che si proseguisse per il sentiero più lungo come da programma, ma manca poco alla
dirittura di arrivo. Le Anacamptis pyramidalis fanno capolino tra i rovi e sembra che ci salutino con il loro movimento oscillatorio indotto da una leggera brezza, ma è una splendida popolazione di Ophrys holosericae subsp apulica che chiude la porta di casa alle nostre spalle, annunciando che l’escursione volgeva al termine.
Prima di giungere al punto di partenza, mi viene indicata una pianta per sciogliere dei dubbi: si, è una Borago officinalis, la borragine, le foglie panate e fritte sono squisite, ma una voce femminile alla mia destra aggiunge: “i boccioli si mangiano in insalata”. Eduli come quelli dell’Onopordum illyricum! Una rivelazione data da una donna avvolta da un’aurea giallo˗verde, no non è un angelo ma la Signora Preite, consorte del nostro caro Umberto, la cui sagoma è definita dalle Poaceae prossime al viraggio giallo˗oro che dominano nel prato alle sue spalle, lei che ci aveva deliziato con delle spettacolari cicorie a pignata alla cena di Natale presso la sede dell’Associazione e appartenente alla categoria delle massaie salentine, tesorieri di tradizioni culinarie quasi perdute e che, a mio parere, dovrebbe essere dichiarata protetta da una specifica direttiva CEE. I Briza minor (i sonaglini) rievocano invece ricordi infantili in Rocco Venece, rendendoli sonori con un: “naaaaa”!
Giungiamo al commiato allo scoccar del mezzodì, non prima però di una bella bevuta tra amici di acqua minerale naturale; tutti partecipano tranne uno, colui che appena conosciuto l’ho subito inquadrato come “tutto d’un pezzo”. Lui non ha bisogno di idratarsi con l’acqua, gli bastano le caramelline che porta sempre con sé in tasca, lui che da esperto micologo non ha notato i cisti, i lecci,l’Eryngium campestre, ma ben altro: i municeddhri (lumache di terra della specie Helix aspersa muller)
“Quai nci suntu” (qui ci sono)! E se lo ha detto Antonio Sciurti, detto Tonio, è una certezza!
I saluti, gli abbracci e le strette di mano decretano lo scioglimento della seduta, è tardi, è domenica. La tavola salentina imbandita a festa ci aspetta a casa per nutrire il corpo, la mente è già satura.
E come disse Rossella O’Hara in Via col vento, anche io dico: Domani è un altro giorno
Fina Giovanna
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